Documento fondativo


L'autunno del 2008 ha segnato la storia recente dei movimenti studenteschi. Lo hanno fatto le centinaia di migliaia di studenti che sono scesi in piazza per protestare contro i tagli di Berlusconi, Tremonti e Gelmini al nostro sistema scolastico (8 miliardi di euro in tre anni), introdotti come uno dei primi provvedimenti del nuovo Governo.
A chi avesse osservato attentamente le politiche degli ultimi governi di centro-destra sul tema del sapere la motivazione era chiara: puntare a ridurre i costi, anche tagliando il numero degli insegnanti, anche a costo di limitare drammaticamente gli investimenti sulla qualità della didattica, anche rischiando di lasciare il sistema di formazione del nostro paese indietro di qualche decina d’anni rispetto al resto d’Europa, anche accettando di provocare significativi disagi sociali riducendo il numero di ore di lezione, andando a colpire, insomma, le istituzioni scolastiche nel loro ruolo più profondo di ascensore sociale della comunità.
La destra parte dal presupposto che la scuola pubblica debba essere un’ultima scelta, un salvagente per chi non ha alternativa. Per quelle famiglie che non riescono ad iscrivere i figli alle scuole private nemmeno potendo usufruire degli incentivi statali sotto forma di bonus.
A questa idea malsana di fondo, si aggiunge il cinismo poco lungimirante di un governo che di fronte alla necessità di fare cassa, attinge da settori come la scuola e l'università pubbliche, mettendone a repentaglio il funzionamento e il libero accesso.
Le studentesse e gli studenti italiani hanno risposto a questo attacco uniti sotto uno slogan efficace e calzante che ha occupato le strade, le piazze e le prime pagine dei giornali per molti mesi: “Noi la crisi non la paghiamo!”.
Un movimento forte e spontaneo ha sconvolto per un autunno non solo l'opinione pubblica e la classe politica, compresa quella giovanile, ma anche il mondo delle associazioni studentesche sindacali e tutta la galassia di associazioni giovanili politiche che si sono sentite – alcune piacevolmente altre meno- travolte da una protesta che non hanno guidato come in passato, ma di cui in gran misura erano esse stesse parte.

Il primo problema capita proprio nel cuore della protesta, dopo una calda mattinata di mobilitazione. A Piazza Navona scoppia una rissa tra Casa Pound, movimento di estrema destra, e alcuni giovani dei centri sociali. Qui “l'Onda anomala” mostra la sua prima debolezza e il problema va aldilà degli scontri, delle violenze perpetrate da gruppi neofascisti sotto gli occhi di una Polizia quasi compiacente.
Appare chiaro che il movimento è forte, innovativo nelle sue forme di partecipazione, ma immaturo sul terreno della politica, incapace di organizzare la proposta, di renderla omogenea, rifiutandosi in più di rendersi conto di questo limite. Alle assemblee della Sapienza se ne faceva anche motivo di vanto: “rifiutiamo ogni caratterizzazione politica, non solo partitica”. Come se centinaia di migliaia di persone che dicono di combattere per qualcosa non fossero esse stesse politica.
La sconfitta politica, non solo dell' “Onda” in quanto tale, ma di un progetto che poteva mobilitare per la prima volta, e per intera, una generazione che non si è nemmeno mai scelta da sé uno slogan che la rappresentasse la si ha dopo qualche mese. Si percepisce dal momento in cui l’opinione pubblica comincia a digerire e poi fa propria la lapidaria frase con cui Maria Stella Gelmini aveva liquidato le prime proteste: “tutti gli studenti in piazza sono dei conservatori che non vogliono accettare le riforme”.
Il movimento non voleva o non era capace di organizzarsi per rispondere sul terreno della politica. Così quei milioni di innovatori incazzati che in tutto il paese erano scesi in piazza per difendere i loro diritti di studenti e per restituire alla formazione, allo studio la centralità necessaria, sono stati paradossalmente relegati nel ruolo di difensori di un sistema sapere tra i più vecchi e poveri dell'occidente.
E' qui che tutte le associazioni studentesche avrebbero potuto ma non sono riuscite a prendersi lo spazio per mettere a frutto una loro elaborazione politica. Sono rimaste ingabbiate da una parte dalla natura controversa del movimento, dall'altra dal non aver intuito come la priorità, questa volta, non fosse capire quante e quali bandiere colorassero – o non colorassero - le piazze, ma si trovasse nella capacità – e nell’umiltà - di mettere i contenuti a disposizione di un movimento grande, ma fragile. Conservando la maturità e la lucidità politica per capire come, banalmente, al naturale defluire di un’Onda lunga, ma pur sempre stagionale, che alcuni hanno cercato inutilmente di cavalcare facendo surf, le idee, quelle sì, come pietre, sarebbero rimaste sulla spiaggia della politica. E, tra queste, le migliori avrebbero potuto anche cambiare qualcosa.
Noi rivendichiamo la nostra presenza in quel movimento, non la rinneghiamo. Oggi, consapevoli della necessità di andare oltre, vogliamo dimostrarci in grado di sapere imparare da quelle che sono state le sue ricchezze e i suoi limiti, dai suoi come dai nostri errori.
Per smetterla di guardarci allo specchio e chiederci quanti siamo e chi siamo, se siamo divisi o uniti, se siamo più o meno di sinistra, più o meno sindacato, più o meno movimento, più o meno rappresentanti, più o meno politica. Per smetterla di fare tutto questo mentre la maggior parte degli studenti ha smesso di considerarci un punto di riferimento reale, né fuori e né dentro alle scuole quasi senza che noi ce ne rendiamo conto.
Per provare a rilanciare un’idea di scuola alternativa e contemporanea, partendo dall’idea che la partecipazione studentesca non possa ridursi all’analisi, alla contestazione e – quando ci si riesce - alla proposta di miglioramento della legge di questo o di quell’anno, di questo o di quel ministro, ma che le debba essere restituito il diritto ad un pensiero di lungo periodo, agli studenti di oggi l’occasione di sognare e organizzarsi per costruire la scuola di domani.

Per tornare a parlare di scuola e di politica: insieme.

1- Cambiare la scuola
(Diritto allo studio, Didattica, Multiculturalità)
L’Italia è un paese in cui da sempre si investe poco sulla formazione delle persone, specie su di una formazione di massa. Un paese che continua a ritenere sostenibile un sistema di istruzione che lascia indietro nei percorsi una grande parte degli individui a cui si rivolge.
Gli effetti di questa miopia sono evidenti e gravissimi. Le statistiche, infatti, da un decennio ci dicono che nel nostro Paese il tasso di dispersione scolastica è decisamente più alto della media europea. In Italia troppi ragazzi decidono o sono costretti a non diplomarsi; per problemi economici e culturali abbandonano, anche prima dei 16 anni, il proprio percorso di studi.
L’istruzione non può essere considerata un investimento che le famiglie, in base alle loro possibilità, fanno per il futuro dei propri figli; dev’essere, come scritto nella costituzione, un diritto-dovere di tutti.
La globalizzazione, nonostante le sue grandi contraddizioni, lo sappiamo, non è un gioco a somma zero: è anche un’occasione per tutti. Per tutti gli individui, come per tutti gli stati nazionali, di misurare i propri talenti e le proprie risorse, per mettersi in discussione e progredire.
Non possiamo pensare, però, che una sfida come questa possa essere colta e “giocata” al meglio da una comunità di persone portate a decidere sul proprio futuro guardando al proprio passato; guardando alle proprie condizioni economiche e culturali di partenza, anziché alle proprie capacità e alle proprie ambizioni.
Solo mettendo le persone nelle condizioni di scegliere un loro percorso di vita e di viverlo liberamente il nostro Paese si trasformerà in una comunità moderna, all’altezza della situazione. Una comunità – o un insieme di molteplici comunità, nella scuola dell’autonomia - di individui liberi di affrontare il proprio futuro.
In Italia le leggi sul diritto allo studio sono di esclusiva competenza regionale. Questo genera una legislazione fortemente disomogenea nei diversi territori, ai quali è lasciata persino la libertà di decidere su approcci culturali autonomi, di regione in regione, in mancanza di un quadro nazionale di riferimento entro il quale collocare i propri provvedimenti.
Si va da regioni che, sulla base di un modello che prova a farsi carico delle condizioni di tutti, stanziano molti fondi per borse di studio, trasporti, libri di testo ecc.. Ad altre che invece concepiscono il diritto allo studio come “rimborso” delle spese sostenute a quelle famiglie che liberamente scelgono o si possono permettere di spendere e investire sull’istruzione dei figli. Spesso questo modello si traduce in bonus elargiti ai nuclei familiari di studenti delle scuole private.
Ovviamente tra questi due modelli, se presi come estremi, c’è una maggioranza grigia di regioni che stanziano pochissimo e/o si interessano ancor meno dal punto di vista sociale e politico del diritto allo studio, ignorandone innanzitutto la centralità all’interno delle politiche economiche del territorio.
Da tempo il centro-sinistra, le organizzazioni giovanili, le associazioni studentesche, chiedono una legge quadro nazionale sul diritto allo studio che fissi i livelli minimi garantiti in tutte le regioni; pensiamo anche che su questo tema sia necessaria una riflessione, perché di regione in regione non può esserci una impostazione culturale diversa nel mettere tutti nelle stesse condizioni per studiare, perché significherebbe avere diverse impostazioni sul senso stesso della scuola.
La nostra scuola, lo sappiamo, è ancora basata sul modello della ormai preistorica riforma Gentile, fatta quando palazzo Venezia era ancora abitato, nel 1923, la cui logica era avere un sistema formativo che dovesse avere un ruolo di alfabetizzazione di massa, e separare a 14 anni i ragazzi che avrebbero scelto un liceo: la classe dirigente, e quelli che avrebbero scelto un tecnico o l’avviamento professionale: la forza lavoro.
Al netto di valutazioni su quanto fosse sbagliato, già nel ’23, avere un sistema scolastico in cui il posto di un individuo nella società veniva quasi irrimediabilmente determinato dalla scelta della scuola superiore, è evidente che questo impianto soprattutto oggi sia improponibile, dopo che la società italiana, il mercato del lavoro, banalmente il grado di alfabetizzazione di massa sono cambiati. Oggi abbiamo una società in cui il tasso di analfabeti, almeno quello, è molto basso, in cui il numero di iscritti all’università è cresciuto esponenzialmente, in cui il lavoro tecnico è diventato lavoro specialistico. Oggi la scuola dovrebbe ripartire dall’autonomia scolastica, valorizzare ogni percorso formativo nello stesso modo, tenendo uniti, e non separando, come nella logica di destra, Sapere e Saper-fare.
Nel terzo millennio il “Sapere”, inteso come insieme di conoscenze e competenze, necessario a svolgere un determinato lavoro, è aumentato di molto. Questo dato deve far riflettere su quanto sia fondamentale investire maggiormente sul sistema formativo, che deve preparare gli studenti per affrontare l’università, o farli entrare nel mondo del lavoro con delle competenze tecniche specialistiche.
Anche il rapporto scuola-lavoro, che doveva rappresentare un'innovazione forte nel nostro sistema formativo, è gestito molto male. Oggi gli studenti in stage in gran parte lavorano per aziende che anziché partecipare alla loro formazione li sfruttano senza ritegno per compiti che hanno molto poco di formativo. Su questo noi possiamo agire con un'azione che sia innanzitutto di denuncia, per difendere chi, ancora all'interno del sistema formativo, viene mandato a preparare i caffè – peraltro gratis- in un'azienda che invece dovrebbe contribuire alla sua formazione. Il tema di uno statuto nazionale degli studenti in stage, non è più rimandabile.

La scuola superiore non deve essere concepita come strumento di selezione, ma come uno spazio in cui i ragazzi possano formarsi su tutte le discipline, con l’aiuto di una classe docente che non li tratti come utenti di un servizio, ma che li aiuti a trovare e realizzare i propri ambiti di interesse. Per attuare questo ambizioso obiettivo, che retoricamente può essere espresso con facilità, occorre un ripensamento globale della didattica nelle scuole superiori, che parta dalla realizzazione piena dell’autonomia scolastica, cercando di farla vivere non solo con i progetti extracurriculari, di utilità relativa, ma rafforzandola con un meccanismo che sia davvero flessibile per gli studenti, che esca fuori dalla rigidità centralista per cercare di andare incontro quanto più possibile alle capacità e agli interessi di ogni studente.
C'è molto da cambiare, ma per farlo occorre chiarirci le idee, occorre riflettere su come debba essere la scuola di domani, vista da sinistra, facendo sentire gli studenti realmente parte di una comunità, realizzando una scuola che includa tutti non sul modello del 6 politico, ma con l'elasticità necessaria per andare incontro alle difficoltà, come alle qualità, di ogni singolo studente.
La scuola che vogliamo è culturalmente distante dalla visione di destra, che considera la scuola come luogo in cui ci si misura, in cui i ragazzi immigrati, anche quelli nati in Italia, ma con la pelle di un altro colore, debbano essere messi in classi separate.
Noi crediamo in un'inclusione vera, non fondata sul buonismo spicciolo, ma fondata in coerenza con il principio di una scuola pubblica per tutti, che dia l'opportunità ai ragazzi stranieri di integrarsi a pieno nel sistema formativo, che gli consenta di avere gli stessi strumenti di chi parte da una condizione economicamente e culturalmente migliore; solo così si può sconfiggere la stupida ed imperante eterna paura dello straniero, del diverso.
2 - Ai nostri posti! 
(Rappresentanza, Edilizia scolastica, Orientamento)
Un'associazione forte non può essere concepita come un think-tank con struttura e presenza astratte, dobbiamo vivere innanzitutto nelle scuole, recuperare una dimensione di associazione di istituto che non sia solo un collettivo che organizza le manifestazioni, ma una associazione che deve essere vicina agli studenti nella quotidianità.
Dovremo lavorare sulla qualità della nostra presenza negli istituti, con un lavoro che sia tangibile e spendibile, vicino ai bisogni degli studenti. Lo possiamo fare partendo dalla rappresentanza. Proprio in un momento in cui la si vuole distruggere insieme al ruolo stesso degli studenti nella comunità scolastica, attraverso il disegno di legge Aprea, dobbiamo dimostrare che siamo capaci di sfruttare al meglio i nostri spazi per poterne rivendicare di nuovi.
Il lavoro sulla rappresentanza deve partire dal mettere in rete le tante esperienze positive che ci sono sui territori, creando luoghi in cui condividerle e in cui pensarne di nuove; mettendo in campo un lavoro complessivo. 
L'obiettivo deve essere presentare, l'anno prossimo, in tutte le scuole in cui siamo presenti, rappresentanti che si candidino con programmi che siano vere e proprie piattaforme create e condivise da tutta l'associazione; valorizzare ed incentivare l'utilizzo dei comitati studenteschi che decidono l'utilizzo dei fondi per le attività complementari o integrative previsti dal DPR 567/96 attraverso luoghi di elaborazione e di scambio di idee sui progetti che proprio grazie a quei fondi si possono realizzare; portare nelle Consulte Provinciali, nel Consiglio Nazionale dei Presidenti di consulta, nel forum delle associazioni del Ministero dell'Istruzione, quella elaborazione sui programmi e sulla progettualità che ci consentirà di essere in quegli spazi con una forza politica maggiore di chi, specie a destra, li utilizza solo per piantare una bandierina in un'ottica di risiko politicheggiante, in cui le minoranze associative studentesche, più o meno organizzate, più o meno presenti e riconosciute sul territorio, fanno finta di contarsi. 
La rappresentanza deve essere la via maestra con cui fare arrivare la nostra voce agli studenti, perché valorizzare il ruolo degli studenti nella comunità scolastica passa necessariamente dal saper sfruttare gli spazi che ci sono istituzionalmente riconosciuti. Per questo dobbiamo riprendere alcuni validi strumenti che hanno fatto la storia delle associazioni studentesche, quali ad esempio le “guide” per gli studenti delle scuole superiori, utili per combattere l'idea di una comunità studentesca passiva nelle scuole attraverso una vera informazione sui diritti e i doveri degli studenti.
Non vogliamo che nelle scuole gli studenti stiano solo dietro i banchi a prendere appunti e a seguire le lezioni, non vogliamo essere soggetti passivi, vogliamo partecipare, nei nostri spazi, al processo formativo, che dovrebbe avere come obiettivo non solo l'insegnamento di conoscenze e competenze, ma anche stimolare una crescita di coscienze critiche ed educare alla cittadinanza non con un'ora di educazione civica alla settimana, ma attraverso la partecipazione alla vita della comunità scolastica.
Proprio attraverso la partecipazione puntiamo a innescare un meccanismo che porti gli studenti a sentirsi parte di una comunità che devono essi stessi proteggere e a cui devono sentirsi legati.
Pensiamo al tema dell'edilizia scolastica; uno dei punti dolenti del nostro sistema, che viene alla luce solo quando succedono gli incidenti gravi, quando un ragazzo muore proprio nel luogo in cui dovrebbe essere più al sicuro, ma che è un problema strutturale che gli studenti vivono sulla loro pelle nella quotidianità.
I fondi per l'edilizia, sono di competenza provinciale. Ci sono realtà in cui una classe politica responsabile, seppure con una graduale diminuzione dei fondi stanziati dal governo nazionale - nonostante i recenti tragici fatti di cronaca – perpetrata negli ultimi anni, fanno investimenti di lungo periodo, costruendo edifici nuovi, ristrutturando scuole di proprietà dello stato; ma c'è anche una grande parte di province in cui si sperpera una quantità enorme di denaro pubblico per sostenere le spese di affitto, di ristrutturazione, di strutture scolastiche in mano a privati – spesso scelti peraltro con un meccanismo molto poco trasparente- che non rappresentano una soluzione lungimirante per questo problema.
Anche su questo tema, bisognerà costruire una rete di rappresentanti capace di raccogliere e segnalare i problemi e le esigenze di intervento all'ente istituzionale competente, pensando ad un coinvolgimento attivo ed istituzionalizzato degli studenti nella catena, oggi poco efficiente, degli investimenti delle province sulle strutture scolastiche. Perché il problema degli studenti che non rispettano il luogo in cui studiano, passa anche da quanto questo sia decadente e inospitale. Esattamente come la relazione positiva che ci dev'essere tra studenti e docenti deve basarsi sul concetto di reciproco rispetto, e non di subordinazione.
Il rapporto docente-studente non può, nel terzo millennio, essere un rapporto che si regge solo sul principio dell'autorità.
Il ministero, annunciando in uno stile che ricorda la battaglia del grano, che è ritornata la scuola del rigore, vuole cancellare tutti i piccoli passi in avanti che su questo tema il centro-sinistra aveva fatto, introducendo i concetti di autovalutazione degli studenti, di griglie che misurassero le conoscenze e le competenze tenendo conto anche dell'interesse dello studente, della partecipazione, delle attività extrascolastiche. Oggi noi dobbiamo riprendere quella strada, alzando il tiro; pensando a quanto non sia normale che nel nostro paese non ci sia un vero sistema di valutazione dei professori, dei corsi di aggiornamento che sostengono che sono ben lontani dal concetto di formazione permanente che bisognerebbe introdurre in Italia, non solo per i professori.
L'autonomia scolastica può essere veramente il volano del cambiamento della scuola pubblica, ma per come è tradotta oggi punta solo a rafforzare il potere, per certi versi illegittimo, dei dirigenti scolastici.
L'interpretazione malata dell'autonomia scolastica ha portato ad un sistema in cui le scuole sono incentivate a farsi concorrenza tra loro cercando di accaparrarsi quanti più studenti possibile, anche con vere e proprie campagne di marketing, che ne pubblicizzano i numerosi indirizzi tra cui scegliere, in brochure che vengono distribuite nelle scuole medie.
Noi pensiamo che il tema dell'orientamento sa centrale, alla fine di ogni ciclo di studi. Pensiamo cioè che ci debba essere una informazione non concorrenziale, ma laica, sulla scuola secondaria da scegliere, come sull'università da scegliere; perché è importante che questa scelta venga fatta essendo aiutati, non ingannati, dalle diverse scuole ed università italiane; perché se il metodo rimarrà questo, continueranno ad esserci nel nostro sistema due grandi problemi: resterà alto il numero di studenti che si sentiranno come pesci fuor d'acqua all'interno del proprio corso di studi, e continuerà a crescere la domanda, già altissima, di ragazzi meritevoli, con competenze tecniche specialistiche.
Nella scuola italiana è fondamentalmente rimasta una dannosa “gerarchia” se non formale, sostanziale, tra gli indirizzi di scuola superiore. E’ statisticamente provato che gli studenti che escono dalle medie con buoni voti, in gran misura scelgono un liceo, mentre quelli che escono con una preparazione peggiore, si indirizzano verso i tecnici o i professionali, determinando una popolazione scolastica in cui le eccellenze sono concentrate negli indirizzi umanistico-scientifici, facendo automaticamente diventare i tecnici e i professionali scuole di second'ordine, mentre invece dovrebbero essere le scuole in cui si incontrano il Sapere ed il Saper-fare, le scuole da cui oggi dovrebbero uscire ragazzi con competenze la cui domanda, all'interno delle aziende, continua a crescere.
Che la destra sia, anche su questo tema, sulla strada sbagliata, è confermato dal fatto che il Ministro Gelmini nel riordino della didattica conseguente ai tagli da lei perpetrati, ha tagliato in quelle scuole le ore ed i finanziamenti per i laboratori, che sostanzialmente sono le materie caratterizzanti di quegli indirizzi.